Sono un nutrito gruppo di anziani che vivono nello stesso quartiere, direi meglio, in condominii inscritti in un centinaio di metri di area periferica, quelli che siedono sulle due panchine ai bordi di un campo verdeggiante d’erba. Le costruzioni sono degli anni settanta, i nuovi residenti sono famiglie di immigrati, i vecchi abitanti vivono lì da moltissimi anni e si conoscono tutti. Si è creata fra loro una conoscenza fatta di consuetudini ed una di queste è il ritrovarsi nei giorni tiepidi della primavera, in quelli afosi dell’estate e nell’ultimo sole di inizio autunno, sulle panchine ombreggiate da alcuni alberi, fra i quali una quercia dalle larghe fronde, i due salici piangenti, bellissimi e grandissimi, l’uno dopo l’altro sono stati abbattuti, segati perché minacciavano di cadere con i temporali degli ultimi anni di clima impazzito. Quegli anziani si siedono lì, in fila come passerotti su un cavo della luce, due o tre sono accompagnati dalle dame di compagnia (le badanti), un altro paio, essendo più giovani, rimangono in piedi perché non c’è posto a sedere per tutti ed, infatti, lamentano la mancanza di altre panchine e loro vorrebbero che il Comune ne mettesse qualcuna, le une di fronte alle altre, per conversare guardandosi in viso, e per fare posto agli altri. Quelli che hanno i nipoti piccolini li portano assieme loro, seduti sulle biciclettine e così, anziani e piccini stanno insieme. Loro sorridono e ridono sonoramente quando i più spiritosi raccontano storielle buffe, si prendono in giro, raccontano dei figli dei nipoti, fanno passare qualche oretta, poi se ne vanno piano piano, a braccetto l’una dell’altra, sono quasi tutte donne quei passerotti seduti sulle panchine sotto la quercia.

Francesca Boldrin