Giovanni Bollea, il fondatore della moderna neuropsichiatria infantile, ci ha lasciati il 6 febbraio scorso.

«Per favore, niente retorica sulla mia persona». Aveva ragione a chiedere maggiore sobrietà sul suo conto, Giovanni Bollea, il celebre studioso dell’infanzia scomparso ieri a Roma a 97 anni (la camera ardente sarà allestita domani in Campidoglio, dalle 10). Aveva ragione di temerla, la retorica, perché correva il rischio di essere ingabbiato in una serie di cliché giornalistici, inevitabilmente facili: dal “vecchio saggio” al “professore appassionato”, all’”irriducibile idealista”. Definizioni anche gratificanti, ma semplificatorie e riduttive di un’esperienza umana e professionale di prim’ordine.

Che Bollea fosse saggio, appassionato e idealista è fuori di dubbio, ma più importante è stato il suo ruolo nell’affermazione di una disciplina – la neuropsichiatria infantile – prima molto osteggiata, poi considerata negli ambienti accademici con qualche sussiego, infine anche un po’ enfatizzata, come del resto negli ultimi anni sono stati enfatizzati i bambini. Sempre più si tecnicizza e si idealizza la loro presunta felicità: un modo sofisticato per dissimulare l’ambivalenza dei sentimenti in un Paese dove i bambini non si fanno.

Bollea, invece, ha sempre avuto una profonda fiducia nei più piccoli, nella loro diversa modalità di guardare il mondo. Era convinto che sarebbero stati proprio loro – i bambini – a distruggere l’individualismo e il consumismo della nostra epoca. Ma, di Bollea, affascinava anche la considerazione e il rispetto che aveva per le madri, secondo una lezione umana e scientifica nel segno dei grandi innovatori negli studi sull´infanzia come Donald Winnicott e John Bowlby. Una lezione che si può sintentizzare così: la mamma sa come comportarsi con il suo bambino, e in quel suo sapere naturale deve confidare pienamente.

Art. da ” la Repubblica” di Luciana Sica