2015-05-02 11.51.13

Lo Schiacciapatate

schiacciapatateQuando suonava la sirena, mamma d’improvviso mi sedeva sull’angolo della grande tavola, in cucina, e in un battibaleno ero avvolta nel cappottino, col collo di volpe. Era il colore della guerra, quel pelo fulvo. Mia madre mi teneva stretta stretta in braccio, e si correva tutti nel rifugio, lasciando i piatti in tavola, ad aspettare che finissero i bombardamenti.

I miei ricordi sono in bianco e nero, color dell’ombra, striati di grigio, come la gattina Memi, unica compagnia di Luciana bambina, io.
La grande casa di Mestre era il ritrovo di molti parenti, potevamo arrivare ad essere anche una ventina, immersi nel tepore della stanza scaldata dalla stufa, attorno alla grande tavola in legno grezzo, coperta con la tovaglia bianca, e i piatti fumanti, cui affido il compito di parlare delle nostre storie.
Odore di verza bollita, alle sette del mattino: la gioia di sapere che avremmo mangiato. Eravamo fortunati, cibo semplice ma ne disponevamo, e il nonno spesso inviava me e mia cugina a consegnare derrate alimentari ai meno abbienti. Lo ricordo bene, seduto sulla sua sedia, serio e stanco, ordinato, nel suo cuore dolce; come quando negli ultimi anni di vita, guardava il mondo dalla finestra, nel punto ove adesso han messo il tram a scorrere sul filo dei suoi sguardi.
Nel nostro stretto cortile crescevano gigli, mughetti, portulache, dalie, e bellissime rose porpora. E c’era il fico.  Nonna cucinava le verdure di stagione, riso col sedano, zuppa di pesce, razza bollita, risotto con fegatini e durelli, brodo di frattaglie, brodo di gallina, la rara pasta col ragù in bianco, piselli freschi… le verze imperavano. Qualche volta nonna percorreva ventisette chilometri in bicicletta per andare a prendere dei pezzi di carne, presso un fattore che aveva le mucche. La pasta e fagioli era riservata alle giornate di cielo coperto, per riscaldarsi. Rosmarino, patata, cipolla, aglio, alloro, i legumi e le tagliatelle all’uovo preparate al mattino, mentre io giocando facevo i miei dieci gnocchi di patate, con il minuscolo schiacciapatate che il nonno, abile fabbro, aveva creato per me, la piccola di casa. Lui era ferroviere e aveva un piccolo laboratorio in fianco a casa.
Avevo cinque anni, e in quei giorni un estraneo si sedette a cena con noi,  appena rientrato dai campi di battaglia; salvo da terribili eventi che oggi si leggono sui libri di storia, ma sono tra le amare verità del mondo. Mi spiegarono che i militari nemici avevano contato fino a dieci, e a quei dieci soldati spararono. L’undicesimo era mio padre.
Io ero una bambina e pensavo che il nemico fossero le armi, le bombe, mentre i soldati ai miei occhi erano tutti uguali, uguali a quell’uomo che stavo imparando a conoscere come papà.
La prozia Elvira amava mangiare con noi, usciva dalla casa di riposo di buonora, ed appena giungeva le facevamo un pediluvio, perché trovasse ristoro. Gli anziani di famiglia erano molto venerati,  in quanto preziosi capostipiti delle generazioni successive.
Il nonno raccoglieva gli stipendi di tutti gli uomini di casa, ed insieme si prendevano le decisioni sugli acquisti, sempre seduti in cucina, fulcro del nostro vivere.
Una volta all’anno mamma e nonna si alzavano di notte per fare il “lievitino” e la focaccia dolce che ne usciva era talmente grande che veniva portata a cuocere dal fornaio, dato nel nostro forno entrava solo la teglia con le mele cotte. Zia ci regalava il vino clinton, talmente rosso da macchiare le tazze col suo alone, vero e proprio inchiostro d’uva! La brocca di terracotta era ripiena del liquido rubino, e mia madre la allontanava perché l’aroma dell’alcol le dava la nausea. Persino a novantacinque anni, copriva il bicchiere degli ospiti con un tovagliolo, per bloccare il diffondersi di quel fastidioso odore.
In giardino il nostro fico ancora fiorisce, piccoli fiori bianchi, tra quelle foglie grandi, aperte, che io immagino siano le mani di tutti i familiari con cui  ho passato l’infanzia, mani che vivevano unite, attorno ad un grande rettangolo d’amore

Questo racconto l’ho scritto per il premio letterario dell’Oic 2015

10 giugno 2015 Luciana Tosetto